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martedì 6 aprile 2010

Gli esordi

Avrei dovuto capirlo. Il giorno del mio esame di quinta elementare avrei dovuto capire a cosa stessi andando incontro. Intendo dire che avrei dovuto cogliere il segnale che nella vita sarei stata prescelta per fare mille cose, se possibile contemporaneamente, dal fatto che dovetti chiedere al commissario di poter essere esaminata per prima, in quanto quella stessa mattina avrei dovuto sostenere l’esame di ammissione al Conservatorio “N. Paganini” di Genova. Sarebbe stata la prima di una lunga serie di volte in cui sarei passata avanti ad altri per poi correre altrove…
L’idea di iscrivermi al Conservatorio mi era venuta poco prima che scadesse il termine per la presentazione della domanda. I miei dubbi erano infatti dovuti al fatto che avesse fatto domanda anche S., un mio compagno di classe a mio avviso “troppo educato”. Da ciò avevo dedotto che al Conservatorio fossero tutti “troppo educati” per i miei gusti e la cosa rendeva quella scuola poco appetibile ai miei occhi. Non mi sentivo all'altezza. (Circa l’educazione dei musicisti avrei avuto modo di ricredermi ampiamente negli anni seguenti).
Feci l’esame di ammissione per pianoforte. Non lo passai. S. sì. Ricordo soltanto che la mamma mi aveva vestita da brava bambina, con un orribile vestitino blu che io odiavo, le ballerine dorate ed una valigetta con dentro gli spartiti. Naturalmente poco prima del mio turno il manico della valigetta si ruppe ed io fui costretta ad entrare nel salone del Conservatorio, con tutta la commissione schierata, con la valigetta sotto il braccio, ostentando noncuranza e cercando di nascondere l’imbarazzo. Anche da lì avrei dovuto capire molte cose…
Comunque, venni ammessa alla classe di violoncello. Una volta entrata, pensavo, sarebbe stato più facile cambiare strumento e passare nella classe di pianoforte. Inutile dire che suono violoncello da ormai 17 anni e non tocco il pianoforte da circa altrettanti…Talvolta il destino, per fortuna, ha l’occhio più lungo del nostro…
Il mio approccio con quella scuola fu piuttosto strano. Intanto la scuola media annessa al Conservatorio si trovava all’interno di un palazzo in cui c’erano normali appartamenti di normali inquilini, puntualmente disturbati dagli studenti più indisciplinati che non perdevano occasione per suonare i campanelli, bussare e inciamparsi negli zerbini con relativi ruzzoloni giù per le scale. E poi anche le aule erano sistemate dentro piccoli appartamenti, perciò ogni volta che bisognava spostarsi in un’altra classe avveniva una sorta di transumanza con sedie in testa e si poteva assistere ad una fiumana di bambini che vagavano senza meta su e giù per le scale (per la gioia dei sopraccitati inquilini).
Non avendo né normali corridoi né spazi aperti, l’intervallo si svolgeva in questo modo: una bidella di nome Antonina, di cui non ricordo l’esatta provenienza geografica ma che, dato l’accento, tenderei ad escludere fosse di Bolzano, si spenzolava giù per la scala del palazzo con un campanaccio in mano annunciando l’inizio della ricreazione. Dopodiché uno alla volta andavamo in bagno, per poi tornare in classe. Basta. Non era un momento particolarmente esaltante della mattinata, fatta eccezione per sporadici episodi, come quella volta che un mio compagno di nome B. aveva ridotto in mille pezzi un lavandino (nessuno ha mai saputo come avesse fatto) o quando un altro aveva selvaggiamente picchiato una nostra compagna, probabilmente sfiancato dalla noia generata dalla nostra cosiddetta “ricreazione”.
Naturalmente quelli furono anche gli anni delle grandi amicizie e delle prime cotte. Ricordo che per un certo periodo della I media io e la mia amica E. ci eravamo innamorate di A., un ragazzo di terza, pianista, la cui classe era separata dalla nostra da una porta di legno. Poiché il nostro banco e il suo erano sistemati proprio in corrispondenza della porta, io e E. passavamo le mattinate a guardarlo attraverso il buco della serratura e scrivendo il suo nome sul diario. Finchè un giorno accostando l’occhio alla serratura vedemmo un altro occhio che ci guardava dall’altra parte! Lo spavento fu tale che smettemmo di spiarlo e fummo costrette a cercare le nostre prede all’interno della classe, compito arduo in quanto i nostri compagni erano per la maggior parte brutti, immaturi e maleducati (ovviamente S. escluso).
Quelli delle medie, comunque, furono gli anni migliori. La musica ci univa e la nostra vita scolastica era scandita da lezioni di strumento, prove d’orchestra e trasferte per fare i nostri primi concerti. Io naturalmente non mi accontentavo di ciò e, giusto per non stare con la mani in mano, andavo a lezione di tennis 3-4 volte a settimana, facendo anche tornei in giro per la Liguria e ponendo così solide basi per gli esaurimenti nervosi di cui sarei presto stata preda.
Al liceo le cose cambiarono radicalmente. La nostra classe si separò ed ognuno di noi si trovò all’improvviso circondato da persone “normali”, ossia quegli esseri viventi antropomorfi che vanno a scuola la mattina, studiano il pomeriggio e, inaudito, dormono la sera. Noi invece andavamo a scuola la mattina, facevamo lezione in Conservatorio al pomeriggio e studiavamo la sera…per poi dormire la mattina dopo in classe. Naturalmente fatta eccezione per chi, come la sottoscritta, dopo la scuola, aveva la brillante idea di andare a fare lezione di tennis, per poi andare direttamente in Conservatorio, dandosi appuntamento lungo la strada con il genitore di turno, per lo scambio racchetta/violoncello. Ma non escluderei di aver dimenticato qualche volta questo fondamentale passaggio e di essermi più volte ritrovata con l’attrezzatura sbagliata al momento sbagliato.
L’unico momento in cui mi sentivo come tutti gli altri era il sabato pomeriggio, quando, riposti libri di greco, racchette e violoncelli, potevo uscire con le amiche a guardare le vetrine e a parlare di ragazzi…
Naturalmente finchè, arrivato un nuovo insegnante di violoncello, non mi spostarono il giorno di lezione al sabato pomeriggio. Da quel momento in poi la mia vita prese una piega surreale e, a tratti, tragica.

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